APPUNTI E RIFLESSIONI SUI VARI TIPI DI NOBILTA'
NEL REGNO DI NAPOLI NEL SECOLO XVII
di ALFONSO DI SANZA D'ALENA
(articolo pubblicato il 5 luglio 2020)
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Appunti e riffessioni sulle varie categorie di nobiltà esistenti nel Regno di Napoli, tratti dal libro Il cavaliere e la dama (anno 1675), di Giovan Battista de Luca, famoso giurista, divenuto sacerdote in età avanzata ed eletto cardinale nel 1681 da S.S. Innocenzo XI.
Il de Luca individua, all’interno della società dell’epoca, la coesistenza di ben cinque tipi di nobiltà, e li classifica secondo un ordine gerarchico decrescente:
1) Nobiltà sovrana: categoria alla quale appartengono re e principi con piena sovranità d’imperio, non soggetti ad altri poteri “se non a Dio stesso”. L’unica distinzione che il de Luca apporta all’interno della categoria riguarda quei sovrani il cui potere sul territorio derivi da un’altra autorità alla quale sono legati da giuramento di fedeltà o dal pagamento di qualche omaggio. Tutti indistintamente, però, hanno diritto di chiamarsi cavalieri, attributo che gli spetta naturalmente. La dignità sovrana è considerata dall’autore talmente elevata al punto di ritenere che, qualora vi pervenisse anche un soggetto di “oscuri natali”, questi dovrebbe essere considerato “più nobile di qualunque altro”, anche di chi può vantare un’antica nobiltà.
2) Nobiltà magnatizia o baronale: il de Luca la definisce nobiltà pubblica. Dall’epoca in cui i feudi divennero corpi venali, la si acquisisce in conseguenza della titolarità di un bene che può essere acquistato da chiunque, sia pure previo necessario consenso del sovrano. Nell’ordine gerarchico la considera comunque superiore alla nobiltà privata (cioè alla categoria successiva). La categoria è composta da baroni e titolati. L’autore sottolinea come tale dignità possa essere acquisita anche da chi provenga da una bassa condizione sociale (fenomeno non infrequente. Sulla base dell’esperienza acquisita attraverso ricerche eseguite sui feudatari del Molise posso citare alcuni esempi: Santo de Sanctis nella prima metà del 1600 divenne titolare di ben cinque importanti feudi che lasciò in eredità ai suoi discendenti, in seguito ammessi alla nobiltà agnonese; in precedenza il de Sanctis fu agente del duca Petra di vastogirardi, il quale ricordava le sue umili origini definendolo “venditore di citrangole”. A Campobasso, verso la fine del 1700, un contadino con numerosa prole, fu scelto dalla comunità quale nuovo feudatario; il motivo della scelta fu determinato dal fatto che la città, al fine di emanciparsi dal giogo feudale, decise di acquistare il feudo dal sovrano ma necessitava l’intestazione ad un soggetto che potesse garantire la continuità nel possesso del feudo anche per le generazioni future, in modo da impedire che Campobasso tornasse ad appartenere a qualche feudatario sgradito. Fu così che il povero contadino divenne feudatario e fu insediato con tutti gli onori e la consegna delle chiavi della città. Il feudo rimase intestato alla sua famiglia fino all’eversione feudale). Questo tipo di nobiltà, derivante dal possesso di feudi nobili, abitati, insigniti di effettiva giurisdizione, conferisce il diritto legale di definirsi cavaliere.
3) Nobiltà generosa: questo tipo di nobiltà naturale è posseduta ab immemorabili. Il de Luca la definisce privata per contrapporla a quella pubblica. La nobiltà generosa, nel XVII secolo, è il presupposto per l’accesso alle categorie di giustizia negli ordini cavallereschi, e deve essere provata dimostrando, con documenti o testimoni, la nobiltà dei quattro quarti e cioè la nobiltà sia degli avi paterni che di quelli materni. Gli appartenenti a questa categoria possono definirsi gentiluomini, e potranno essere chiamati cavalieri solo qualora vengano ammessi in un ordine cavalleresco, ovvero entrino a far parte di una delle due categorie precedenti.
4) Nobiltà semplice e legale: distingue il titolare dal resto del popolo, consentendogli di accedere alle pubbliche magistrature, di essere esentato dalle pene ignominiose e plebee e dai pesi personali popolari, ma non è sufficiente per accedere agli ordini cavallereschi nella categoria di giustizia. Agli appartenenti a questa categoria spetta il diritto legale di definirsi nobili, ma non possono fregiarsi delle qualifiche di cavaliere e di gentiluomo. La nobiltà relativa a questa categoria è composta da due diverse tipologie: a) la nobiltà naturale che si acquisisce in virtù del grado del padre (per esempio i figli dei dottori o dei capitani) oppure, in assenza del grado, per un’antica ricchezza unita con la vita civile, intendendosi per tale quella di chi, al pari del padre e dell’avo, vive nobilmente senza esercitare lavori vili e meccanici (anche se di tali mestieri si conserva ancora la memoria in quanto esercitati da altri antenati); b) la nobiltà accidentale la cui fonte è il grado rivestito dal soggetto, in virtù del quale egli può considerarsi titolare di nobiltà semplice, e che può consistere nel possesso di gradi accademici o militari (il dottorato, l’essere capitano, ecc.), nel rivestire una dignità ecclesiastica o secolare, nell’aver saputo emergere eccellendo nelle armi o nelle lettere.
5) Nobiltà impropria o cittadinanza: è la situazione di chi, in alcuni luoghi, appartiene ad una condizione definita come popolo grasso o nobili viventi. L’unico privilegio è la distinzione da coloro che fanno esercizi vili e meccanici.
Questa classificazione dei “tipi” nobiliari realizzata dal de Luca delinea il modo in cui erano suddivisi i ceti nella società dell’epoca. Dalla lettura del libro emergono alcuni importanti criteri che permettono di comprendere, in ordine d’importanza, la considerazione che veniva attribuita ad ognuno di essi.
Innanzitutto emerge con evidenza, in quest’ordinamento di tipo gerarchico, la preferenza verso quelle categorie che esercitavano un effettivo potere su altri individui, potere che poteva estendersi in maniera maggiore o minore a seconda che la giurisdizione venisse esercitata su un intero popolo (regno) o su una sua parte (feudo) ed a seconda che il suo esercizio spettasse a titolo originario o derivato. E’ questo il criterio relativo alla distinzione tra nobiltà pubblica e privata che mette in risalto la preminenza riconosciuta alla nobiltà derivante dall’esercizio di un pubblico potere (spettante al sovrano o al feudatario) e la nobiltà posseduta per meriti personali (naturale o accidentale). Ciò spiega il collocamento della nobiltà sovrana e magnatizia nelle prime due categorie.
Un altro criterio si ricava dall’illustrazione della modalità di acquisizione della nobiltà che può avvenire a titolo derivato (nobiltà naturale), in quanto si trasmette da padre in figlio, ovvero a titolo originario (nobiltà accidentale) in quanto deriva da meriti acquisiti direttamente dal titolare. La nobiltà naturale come quella accidentale è collegabile a più categorie (potendosi avere tanto trasmissione da un precedente titolare quanto acquisto a titolo originario, nella nobiltà sovrana, nella magnatizia, in quella quella legale ed in quella improria), mentre solo la nobiltà naturale può essere applicata alla categoria della nobiltà generosa, che richiede necessariamente la trasmissione jure sanguinis.
E’ doverosa una considerazione sull’ultimo “tipo” di nobiltà, ossia quella detta impropria o cittadinanza. Sembrerebbe verosimile ritenerla, più che una vera e propria categoria, una condizione di partenza, ossia un elemento di emersione sociale utile ai fini della cosiddetta centenaria prescrizione. Una condizione, cioè, che se mantenuta per tre generazioni consecutive da vita alla nobiltà che il de Luca definisce semplice o legale.
Infine è importante notare la rilevanza che l’autore riconosce alla condizione di cavaliere, titolo che oggi sembra quasi sconosciuto all’interno del patrimonio araldico-nobiliare del Regno delle Due Sicilie, privilegiandola e riconoscendola prevalente anche in ordine d’importanza rispetto a quelle di gentiluomo ed infine di nobile.
Come ultimo elemento di analisi mi pare interessante soffermarsi a consiederare che la graduazione della nobiltà, così come concepita nella società secentesca meridionale (ma conservatasi anche nei secoli successivi fino al tramonto della dinastia borbonica) consentisse una notevole mobilità sociale. La nobiltà, intesa come passaggio ad un livello sociale superiore, non appare una chimera irraggiungibile ma un’opportunità offerta a chiunque ambisse a possederla e che, se raggiunta e conservata per alcune generazioni, diveniva addirittura patrimonio naturale di una famiglia. Quasi un incentivo ad elevarsi rivolto ai regnicoli, di qualunque condizione purchè determinati e meritevoli.
Bibliografia: