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Sommario

1. Vicennepiane e le sue giurisdizioni

2. S. Martino

3. Bralli o Varavalle

4. S.Giovanni di Montemiglio

5. Macchia d'Isernia e Valle Ambra   

 

1. Il feudo di Vicennepiane

 Ubi ficta fuit ex antiquitus culumna marmorea que finis fuit de jam dicto comitato isernino. Così il Ciarlanti[1] descrive uno dei confini del contado d’Isernia, quello della Serra di Montecapraro, e la citata colonna marmorea era probabilmente piantata nel territorio chiamato Torretta, sulla vetta che ha sempre segnato il confine tra il feudo di Vallesorda, appartenente fin dal 1011 ai Cassinesi e quello di Vicennepiane. La prima notizia sul fudo di Vicennepiane, è del 1171, quando apparteneva ai baroni di Montemiglio. In esso esisteva una chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria, ma intitolata anche ai Santi Simone e Giuda ed a Santa Lucia Vergine. Fu consacrata dal vescovo di Trivento, Raone, che l’arricchì di reliquie ed indulgenze. Ne fu preposto, all’epoca, un tale Raele detto l’eremita di S. Giovanni di Montecapraro[2]. Nel XVI secolo il feudo apparteneva alla nobile famiglia d’Eboli, nella persona del barone Giovan Vincenzo. Alla fine del 1500, risulta di proprietà della nobile famiglia de Maio di Capracotta, alla quale rimase fino al 23 dicembre 1622[3], epoca in cui Ettore de Maio vendette  definitivamente il feudo di Vicennepiane al barone di Castel del Giudice, Donato Giovanni Marchesani. Passato ai suoi successori, il feudo giunse ad Anna Maria Baldassarra Marchesani, figlia di Margherita d’Alessandro e moglie di Giuseppe d’Alessandro, duca di Pescolanciano. Alla sua morte avvenuta l’8 aprile 1729 in Castel del Giudice, divenne titolare per Vicennepiane il figlio Ettore. Fu proprio lui che in qualità di erede ab intestato della madre ed in virtù delle leggi allora vigenti in base alle quali era tenuto nei confronti delle sorelle, Francesca (che sposò Andrea d’Alessandro, duca della Castellina) ed Isabella (vergine in capillis reclusa nel ritiro di Mondragone) al solo obbligo della dote, a vendere il feudo di Vicennepiane. L’atto fu stipulato in Pescolanciano il 20 febbraio del 1732 dal notaio Felice Mezzanotte di Frosolone, a favore di D. Giuseppe Antonio d’Alena che dichiarò di contrattare per persona da nominare. Lo stesso D. Giuseppe fu nominato dal duca come suo procuratore al fine di richiedere il regio assenso su quella vendita, ed a sua volta per mezzo di  suo fratello, il sacerdote D. Francesco prese reale e corporale possesso del feudo con tutti i suoi corpi  e beni[4]. Con ulteriore atto notarile, questa volta rogato dal notaio Tomasuolo il 28 giugno del 1732, D. Giuseppe Antonio dichiarò che la compra era stata fatta da lui per conto ed in nome del fratello Domenicantonio e suoi eredi e successori. Su questi atti chiese ed ottenne il regio assenso per verbum fiat in forma, il 30 giugno dello stesso anno. Con un ulteriore atto rogato dallo stesso notaio Tomasuolo il 10 luglio 1732, il duca e D. Giuseppe ratificarono gli atti già stipulati ed anche su quest’ultimo fu chiesto e concesso qualche giorno dopo il regio assenso.

            Tuttavia il duca d’Alessandro, forse pentito di aver alienato il feudo, pensò di revocare il contratto, e ciò fece con atto del notaio Leonardo Marinelli di Napoli, in data 23 luglio 1732. Il 28 dello stesso mese si rivolse al Sacro Regio Consiglio, chiedendo l’annullamento della vendita che qualificava come semplice promessa; il Presidente Orazio Rocca ordinò la controsupplica e che nulla s’innovase fino alla notificazione. Ettore d’Alessandro aveva nel frattempo saputo che prima della sua richiesta di revoca, era già stato chiesto ed ottenuto il Regio Assenso, ma deciso a spuntarla fece chiedere l’annullamento anche dalle sorelle  e dalla moglie Marianna di Toledo. Francesca d’Alessandro assunse come motivo di giustificazione delle sue richieste al Sacro Regio Consiglio, che i 20.000 ducati che gli erano stati promessi nei capitoli matrimoniali non le erano stati ancora pagati dal fratello il quale non poteva pertanto diminuire le garanzie del credito alienando un feudo; la sorella Isabella, affermò, invece, di non aver ancora ricevuto alcuna dote e pertanto chiedeva che la vendita venisse annullata. Infine Marianna di Toledo, sostenne nell’interese dei figli la tesi secondo la quale tutti i beni feudali del marito costituivano un fedecommesso di cui le leggi vietavano l’alienazione, a maggior ragion considerando che tali beni garantivano la sua dote. Tutte queste richieste erano però destinate a cadere nel vuoto poiché il Regio Assenso era già stato concesso sulla vendita a favore di Domenicantonio d’Alena: il duca d’Alessandro, quindi, consigliatosi con i suoi legali, con i quali tenne parecchie sedute, dovette risolversi ad accettare la vendita che del feudo aveva fatta, e con un ultimo atto stipulato dal notaio Tomasuolo, datato 4 maggio 1733, rinunciò per le sorelle e per se alle suddette istanze, e vendette nuovamente a Domenicantonio d’Alena e suoi eredi e successori il feudo di Vicennepiane per il prezzo di 10.000 ducati di cui mille ne ebbe il giorno stesso del contratto, 2.000 dichiarò che gli erano stati già pagati precedentemente, e delegò il pagamento degli altri settemila a favore del Dr. Stefano di Stefano suo creditore. Il duca inoltre promise la ratifica della vendita per parte delle sorelle e consentì che il compratore, anche come suo procuratore speciale, chiedesse un nuovo assenso al Vicerè ed al Regio Consiglio Collaterale, con real privilegio, etiam in forma Regiae Cancelleriae, e la registrazione nei Regi quinternioni quatenus tamen  opus sit et requiratur. Il regio assenso fu ottenuto il 18 maggio dello stesso anno e fu registrato nel regio quinternione l’11 gennaio del 1734, al n. 252, foglio 184. Nel medesimo atto 4/5/1733, Isabella ratificò la vendita, mentre non si rese necessario fare lo stesso con Francesca poiché la stessa era stata sufficientemente dotata dal fratello oltre il quale non aveva altri eredi legittimi.

            Le condizioni della vendita inserite nell’atto del notaio Tomasuolo (quello del 4 maggio del 1733) furono le seguenti: “Per franco e libero il feudo sudetto da qualsivoglia vendita, alienazione, donazione, sostituzione, refuta, maiorato, fideicommisso purificato seu purificando, obbligo, peso, ipoteca e servitù, eccetto però dal feudal servizio, seu adoa, dovuta in ogni anno alla Regia Corte, e per essa al Sig. Duca di Capracotta cessionario di detta Regia Corte in somma d’anni ducati cinque e tarì tre, e da ogni altro peso che forse si dovesse per natura di feudo e suprema ragione di dominio. Il quale feudo fu venduto dal duca di Pescolanciano con tutte e singole sue ragioni e con la facoltà ancora di reintegrare tutti e qualsivogliano corpi, ragioni, azioni e giurisdizioni a detto feudo seu ad esso Sig. Duca e suoi predecessori spettanti, e per altri forse indebitamente detenuti, occupati e posseduti, e con tutte altre ragioni, prerogative, privilegi, autorità e giurisdizioni a detto feudo di Vicenne piane quomodocumque et qualitercumque spettantino in vigore di qualsivogliano cautele e privilegi, il tenor dei quali s’abbia come se de verbo ad verbum fosse nel presente contratto annotato ed inserito, non riservandosi esso Sig. Duca cosa alcuna, volendo che ogni cosa del detto feudo e lo stesso feudo s’intenda venduto e trsferito al detto Sig. Domenico–Antonio compratore, suoi eredi e successori, siccome li trasferisce in omnibus, serbata la forma di sue cautele e privilegi e con tutte le sue ragioni, ed in altro qualsivoglia modo, ragione, consuetudine, prescrizione ed altra qualsivoglia causa, ancorché fossero tali dei quali bisognasse qui farsene espressa e speciale menzione, e nel generale, seu altro qualsivoglia parlare non venissero, né s’includessero. E si dichiara e conviene che la sudetta giurisdizione sel’intende ceduta e trasferita tale quale però al Duca si appartiene e spetta per dritto di concessione reale o per legittima consuetudine, e non altrimenti, senza riservarsi esso Sig. Duca cosa alcuna”.

            Nel 1750, tuttavia, il figlio del duca d’Alessandro, Nicola, volle rinnovare la lite iniziata dai genitori e dalle zie, alla quale gli stessi avevano espressamente rinunziato con l’atto del 1733. Presentò quindi domanda al Sacro Regio Consiglio e fu incaricato il Consigliere Porcinari, il quale spedì la cotrosupplicata allo scrivano Ricci. Il d’Alessandro sosteneva che il padre in quanto fidecommissario di Anna Maria Marchesani non poteva alienare Vicenne piane, anche perché il Sacro Regio Cosiglio glielo aveva proibito in pendenza della causa. Inoltre sosteneva che nella vendita vi era stata lesione di prezzo ultra dimidium, e ne chiedeva la restituzione in integrum. Domenicantonio preparò la sua difesa fondandola sui seguenti punti: a) la duchessa di Pescolanciano aveva presentato opposizione alla vendita nell’agosto del 1732, quando la vendita stessa era già perfetta poiché munita di Regio assenso; b) la stessa aveva espressamente rinunciato all’opposizione con apposita convenzione stipulata dal notaio Tomasuolo, con la quale il suo diritto era stato pienamente assicurato dal duca; c) il duca Ettore d’Alessandro, con l’ultima vendita, aveva rinunciato al giudizio iniziato nel Sacro Regio Consiglio presso la banca Rocca, e perciò qualunque decreto pronunciato nel corso di esso non aveva più efficacia, anche perché lo stesso non era mai stato notificato; d) Isabella d’Alessandro aveva approvato e ratificato la vendita; e) Francesca d’Alessandro pur non avendo confermato e ratificato il contratto, non aveva comunque più alcun diritto di opporsi poiché i ventimila ducati di dote promessile dal duca le erano stati da questo pagati con assegno di fiscali su terre abruzzesi e di un palazzo in Napoli, alla strada Santa Lucia, dove abitava il principe d’Ardore; f) inoltre quand’anche la detta Francesca avesse conservato il dirito di opposizione, il duca Nicola, in quanto erede del padre che si era obbligato a far ratificare la vendita, doveva tenere sempre indenne il compratore; g) l’asserito fedecommesso non esisteva affatto, e quand’anche fosse esistito, il prezzo convenuto per la compra con il duca era servito a pagare i debiti della madre a cui prima appartenevano Vicennepiane e gli altri beni lasciatigli; h) non vi era alcuna lesione del prezzo ultra dimidium, poiché la rendita annuale del feudo era di 222,40 ducati all’anno che calcolati alla ragione del 3,50 % formavano un capitale di 6354,28 ducati, mentre la vendita era stata concordata per 10.000 ducati; i) infine essendo nato il duca il 19 settembre del 1726, era ormai decaduto dal diritto d’impugnare l’opera del padre, tanto più che mancando la lesione, necessaria ai fini dell’azione di prelazione e della restituzione in integrum, l’azione stessa era inammissibile.

            Di fronte alle questioni ed eccezioni opposte da Domenico Antonio, il duca ritenne opportuno abbandonare la causa intrapresa e la stessa cosa fecero la moglie e le sorelle.

            Ancora un’ultima battaglia legale doveva essere combattuta per difendere il feudo di Vicennepiane. Il 21 agosto del 1756 il Regio Fisco promosse una lite ed invitò il barone d’Alena a presentare i titoli d’acquisto di Vicennepiane, a dimostrare come il feudo fosse passato da Aurelia d’Eboli ad Ettore de Maio senza pagamento di relevio, a documentare come Vincenzo delli Monti, marchese d’Acaia si era trovato in possesso dell’esazione dell’adoa dovuta per il medesimo feudo.

            Domenicantonio uscì vittorioso anche da quest’ultima lite. Innanzitutto chiamò in garanzia per qualunque evento e secondo il proprio diritto il Duca di Pescolanciano poiché da lui il feudo gli era pervenuto, quindi eccepì la prescrizione centenaria contro gli ultimi due capi e presentò contro il primo il titolo legale di acquisto dell’adoa che aveva rilevato da Giuseppe Capece Piscicelli erede di Andrea duca di Capracotta che l’aveva a sua volta comperata dalla Regia Curia con regolare contratto ratificato dal Re Carlo II in Madrid. Domenicantonio oltre ad opporre queste eccezioni avrebbe potuto dichiarare di volersi avvantaggiare di quegli stessi reali indulti dei quali si era giovato quando si accordò il regio assenso alla compra del feudo, ma per evitare ulteriori spese e fastidi, offrì in via di transazione, il pagamento di 15 ducati. L’offerta fu accettata con decreto della Regia Camera della Sommaria del 23 giugno 1756 e si ordinò che il barone non fosse più molestato in merito. I quindici ducati furono pagati con fede di banco del 6 luglio succesivo intestata a Michele Doti. Il giorno 8 dello stesso mese, vennero spedite lettere con questo provvedimento che furono registrate nella Tassa dell’adoa 33, n. 292  e 293. Ne fu rilasciato certificato a Domencio Antonio d’Alena il 27 agosto successivo.

             Successore di Domenico Antonio per Vicennepiane fu il figlio Donato, morto nel 1822,  e quindi ultimo intestatario nei Regi Cedolari per questo feudo; Donato Antonio ottenne l’iscrizione nei Regi Cedolari il 24 novembre del 1764[5]. Da questi atti risulta, inoltre, che il pagamento dell’adoa e del jus tapeti si era provveduto a pagarlo anticipatamente.

            Il feudo di Vicenne Piane venne diviso per la prima volta nel 1875 (atto del 28 Novembre 1875 per Notar Lorenzo di Ciò) tra i fratelli D. Antonio, Federico, Eugenio e Pietro d'Alena, ed ancora oggi è in proprietà dei loro discendenti.

 

 Diritti e giurisdizioni inerenti il feudo di Vicennepiane, sua estensione e confini: il privilegio di ligio omaggio del 2 aprile 1749

Dopo aver acquistato il feudo di Vicennepiane, ed eseguite tutte le altre formalità necessarie in relazione ad esso, Domenicantonio era ufficialmente investito oltre che del dominio utile anche di tutte le giurisdizioni che sul feudo vantava precedentemente il duca di Pescolanciano. Tali diritti consistevano[6] nel giudicare delle prime e seconde cause civili, criminali e miste, nella zecca e portolania. Per esercitare tali diritti occorreva farne la registrazione nei quinternioni e l’intestazione a nome di Domenicantonio nel Regio Cedolario, cosa che egli fece e che il Razionale Giovanni de Tomaso accettò, con relazione presentata il 7 luglio del 1733. La relazione fu approvata dalla Regia Camera della Sommaria il 4 aprile del 1740 ed ordinò la registrazione e l’intestazione feudale richieste. Occorre precisare che il pagamento dell’adoa di Vicennepiane, come risultava dall’atto del notaio Tomasuolo più volte citato, doveva essere fatta al duca Piscicelli di Capracotta che la teneva in concessione dalla Regia Camera. Senonché prima dell’approvazione da parte della R. Camera della Sommaria, Domenicantonio d’Alena aveva provveduto anche a ricomprare dal duca Piscicelli la suddetta concessione per l’adoa, pagandone il prezzo di 350,00 ducati[7]. Infine Domenicantonio volle prestare il giuramento di ligio omaggio dovuto al Sovrano, in quanto feudatario di Vicennepiane.             Poiché in quell’epoca queste erano importanti cerimonie, conviene ripercorrere le tappe dell’evento traendo le informazioni direttamente dal Real privilegio datato 2 aprile 1749[8].

            Il 2 aprile del 1749, Michele Doti in qualità di procuratore di Domenico Antonio d’Alena, si presentò in Napoli presso Antonio Massamormile, Regio Commissario Generale per l’ufficio di ligio omaggio e d’assicurazione dai vassalli del Regno, nel suo palazzo che si trovava in via Toledo, e propriamente nella stanza precedente alla cappella che faceva parte del palazzo stesso. All’interno trovò il Giudice a contratti Gennaro Caruso, ed il Regio Notaio e Mastro d’atti Giovanni Caruso, entrambi appartenenti al citato ufficio di ligio omaggio. Insieme a loro vi erano due testimoni, ambedue di Napoli, Ciro Micena e Gabriele de Maio. Il Doti consegnò quindi al Commisario la pergamena contenente le regie lettere, e quelle della Regia Camera di S. Chiara, munite di tutte le solennità e di suggello pendente, per fare l’assicurazione dei vassalli del feudo Vicenne piane. Il Commissario dopo averle reverentemente ricevute le consegnò al Mastro d’atti che ne diede lettura: “Carlo, per grazie di Dio, Re del Regno delle Due sicilie, di Gerusalemme ecc. Duca di Parma, Piacenza e Castro ecc; nonché principe Ereditario della Toscana. Al fedele e diletto D. Antonio Massamormile nostro Generale Commissario delle assicurazioni, la nostra grazia e benevolenza.

            Come siamo soliti rilasciare nostre lettere agli eredi di beni e cose feudali per farli riconoscere ed ubbidire dai loro vassalli in tutto ciò che è dovuto e consueto, nel modo stesso ne provvediamo i nuovi domini utili e baroni.

            Ci è stato rappresentato dal nostro fedele e diletto D. Domenico – Antonio d’Alena che egli in virtù di contratti e privilegi, tenne e possedette, come tiene e possiede nella provincia del Contado di Molise, il feudo Vicenne piane con vassalli, rendite di vassalli, giurisdizioni, mero e misto imperio, potestà della spada, gladii potestate, delle quattro lettere arbitrarie e con tutte le entrate ed altro spettante ed appartenente al detto feudo.

            E poiché desidera anche d’esser riconosciuto dagli uomini e vassalli del detto feudo, ci ha fatto, in suo nome, supplicare di far assicurare dai vassalli suddetti lo stesso legittimo suo procuratore, come è uso e consuetudine di questo regno.

            E noi esaudendo benignamente tali suppliche, per mezzo delle presenti che abbiamo esaminate, studiate e deliberate, vi diciamo, commettiamo ed ordiniamo espressamente che dopo averle ricevute, ad ogni istanza o richiesta del detto D. Domenico – Antonio d’Alena o di un legittimo procuratore di lui, vi rechiate personalmente nel detto feudo di Vicenne piane e riceviate, prima dallo stesso supplicante, o suo legittimo procuratore, il giuramento di ligio omaggio e di fedeltà dovuta a Noi, nostri eredi e succesori in questo regno, e poi assicuriate il supplicante stesso od il legititmo procuratore di lui dai detti vassalli e facciate da costoro prestar giuramento di osservare quanto è da essi dovuto giusta l’uso e la consuetudine di questo regno. Ciò eseguito, delle presenti lettere farete scrivere tre originali istrumenti, dei quali uno rimarrà presso di voi, un altro si consegnerà alla parte, ed il terzo curerete di spedire alla nostra Regia Camera della Sommaria.

            Comandiamo intanto a tutti ed a ciascun ufficiale nostro o baronale, ed al Capitano, al Sindaco, agli Eletti, alla Università ed agli abitanti del detto feudo di Vicenne piane ed a qualunque altra persona cui perverranno, o saranno in qualsivoglia modo esibite le presenti, che ad esse obbediscano, prestino e facciano prestare qualunque aiuto, consiglio o favore quando ne siano richiesti da voi, salvi però e riservati sempre il feudale servizio, la fedeltà e l’adoa dovutici e qualunque altro nostro dritto; e non facciano il contrario se hanno cara la grazia nostra e se vogliono evitare una multa di ducati mille.

            In fede di che facemmo scrivere le presenti e munirle del nostro grande sigillo.

            Dato nel nostro palazzo di Napoli ai 28 febbraio 1749. Carlo” (seguono le altre firme e le registrazioni).

            Tornando a leggere dal documento del ligio omaggio: “Lette le quali lettere, il Doti, nella cennata qualità, insistette per la debita esecuzione di esse, e come è costume, inginocchiato innanzi al Sig. Commissario e messe entrambe le mani sul Sacro Messale aperto e poggiato in seno al Commissario medesimo, prestò nelle mani di lui ed alla nostra presenza, il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio alla Sacra Regia Maestà, con le parole seguenti:

            Io D. Michele Doti, Procuratore a quest’atto con speciale mandato del Sig. D. Domenico – Antonio d’Alena, utile Barone del detto feudo di Vicenne piane, in detto nome riconoscendo e confessando il serenissimo Sig. D. Carlo, per la Dio grazia Re di Napoli e di Sicilia, Infante di Spagna, Duca di Parma, Piacenza, Castro ecc. e Gran Principe Ereditario della Toscana, esser vero, legittimo ed indubitato Re di Napoli e di Sicilia, fo solenne giuramento all’onnipotente Dio, pei suoi Santi Vangeli corde et ore jurando et propriis manibus tangendo a voi, Sig. Commissario, che essendo il detto Sig. D. Domenico – Antonio d’Alena sin qua eziandio da oggi avanti sarà buono, fedele e leale vassallo, suddito e feudatario della Maestà predetta e dei suoi predetti eredi e successori e di qualsivogliano loro officiali e ministri, con la debita soggezione, umiltà e reverenza, e procurerà fedelmente ed accortamente l’utile servigio, onore e salute della Maestà predetta e dei suoi Serenissimi eredi e succesori, esaltazione ed aumento dei loro stati e conservazioni di questo regno. Item se alcuna cosa di dolo, perfidia, insidia od altro qualsivoglia sinistro male intenderà che gl’inimici, emoli e ribelli della Maestà predetta, o altri, contro la sua Regal persona o di detti suoi eredi macchinassero, trattassero o tentassero, li disturberà ed impedirà subito e non potendo disturbarli o impedirli, lo rivelerà subito a sua Maestà e suoi predetti Serenissimi eredi e successori e loro officiali e ministri, e contro li predetti emoli e ribelli farà guerra e tregua siccome li sarà comandato, e gli amici, aderenti e seguaci di detta Maestà avrà per amici e benevoli, e così, per lo contrario averà per inimici li ribelli e disobbedienti di detta Maestà, e finalmente osserverà ed eseguirà tutte le altre cose e tutto quello e quanto li buoni, fedeli e leali vassalli, sudditi e feudatari sono tenuti e devono fare compire ed osservare per loro Re e Signore naturale, supremo e diretto, quale essere confesso io suddetto procuratore, in nome di detto D. Domenico – Antonio, uomo ligio della Maestà predetta e dei suoi felicissimi eredi e successori, promettendo in suo nome, fedeltà, lealtà, ligio ed omaggio in mano di voi, Signor Commissario assistente a quest’atto per la detta Maestà contro ogni persona che possa vivere o morire.

            Prestato così il ligio omaggio del detto U.I. Don Michele, nella spiegata qualità, e ripetute tre volte le ultime parole della formula, il Sig. Commissario, in nome di sua maestà il Re, strette le mani del procuratore nelle proprie, lo ammise al bacio di pace a mani giunte e coi pollici incrociati; e dopo l’amplesso della pace, osservate tutte le altre formalità in uso nel regno, lo fece alzare e sedere d’accanto”.

            A questo punto si presentò D. Nicola Salsano come procuratore di Crescenzo Borrello, massaro in capite del detto feudo Vicenne piane e quasi con le medesime formalità e con le stesse parole pronunciate dal Doti, giurò omaggio, ubbidienza e fedeltà al Barone D. Domenico – Antonio d’Alena, suoi figli ed eredi, salvi sempre il ligio omaggio e la fedeltà dovuti alla Sacra e Regal Maestà e suoi eredi e successori.

            Di quanto sopra venne rilasciato privilegio in pergamena che fu consegnato al Doti per rimetterlo a Domenicantonio d’Alena.

             L’atto stipulato dal notaio Tomasuolo nel 1733, ci permette anche di conoscere quali erano l’estensione ed i confini del feudo Vicennepiane[9]. Ancora una volta conviene “leggere” direttamente quanto riportato sull’atto notarile.

            “Il duca di Pescolanciano tiene e possiede come utile Signore e padrone, immediate et in capite Regiae Curiae, in feudum, il feudo rustico chiamato Vicenne piane, di capacità di più carra[10] di paese, parte per pascolo d’animali, parte boscoso con alberi di cerri, cerque, ed altri alberi fruttiferi ed infruttiferi, e parte seminatorio, con due case campestri di fabbrica (…) sito e posto il feudo sudetto in Provincia di Contado di Molise, cominciando il suo confine dal Monte, detto del Prato, dalla cima di una murgia granda, quale fa tre confini, cioè Demanio di Capracotta, Montagna di San Pietro e Vicenne piane; e dandosi camino da detta murgia grande, discendendo per dirittura della Terra di San Pietro dell’Avellana, poco di sotto a detta murgia granda vi sono, da mano in mano, molti alberi di faggio signati con croce ed intacche fatte con accetta, dimostrantino essere il confine tra la Montagna di S. Pietro e Vicenne piane. E proseguendo la medesima dirittura verso S. Pietro, sempre calando per alcune macerie di pietre movibili, s’arriva al capo d’un canale d’acqua e pricipio d’un vallone, ove vi sono molti alberi di pera, uno dei quali sta segnato con croce, e camminando per il corso dell’acqua del detto vallone è a destra il territorio della predetta Montagna, ed a sinistra quello di esso feudo di Vicenne piane, curviando, come camina l’acqua, sin dove si riunisce con l’altro vallone ed acqua che viene dal feudo dé Bralli detto Capo d’acqua. E dal detto luogo, rivoltando a sinistra per detto vallone, in sù contro il corso dell’acqua, a sinistra vi è il feudo di Vicenne piane e a destra, altro territorio di S. Pietro, s’arriva alla dirittura di sotto la Masseria di detto feudo di Vicenne piane, ove si lascia il vallone predetto, che dalli Bralli, e si rivolta a destra verso il Monte, per una piccola serrina, come stanno da mano in mano alberi signati con croci ed intacche fatte con accetta. Si giunge ad una pietra grande immobile, sopra la quale vi sta scolpita nua croce fatta con istrumento di ferro, che dinota il confine fra il suddetto territorio di S. Pietro e detto feudo di Vicenne piane. Continuando per detto confine, anche per la medesima serrina, si arriva alla strada che da S. Pietro va a Vastogirardo, intendendosi la strada di sotto, non quella di sopra, pe essere due strade, dalla quale serrina, rivoltando a sinistra, sempre strada strada verso il Vasto, si arriva ad una pianozza larga, smacchiata, detta di Benigno, dove si lascia la strada destra e si cammina a sinistra per una serretta di zeppe di pietra e si giunge ai piedi della sudetta pianozza larga dove fa tre fini: S. Pietro, feudo di Bralli, tenimento del Vastogirardo e Vicenne piane. Dal quale luogo calando a bascio fra il confine del sudetto feudo di Bralli e Vicenen piane, per alcuni alberi signati con croci ed intacche, si trapassa il vallone sudetto di Capo d’acqua e poi, salendo per altri alberi intaccati, si passa la strada che viene dal Vasto e va a Castello delli Giudici, si cammiina per una serrina con macerine di pietre movibili e poi si lascia detta serrina a sinistra e si rivolta alquanto a destra, continuando per altre macerine sino ad una murgia grande, con alberi di faggio, la quale fa tre confini: feudo predetto di Bralli, feudo dell’Ospedaletto e feudo di Vicenne piane. E dalla detta murgia grande, rivoltando a sinistra, camminando sempre serra serra, come acqua penne, per li confini dell’Ospedaletto e Vicenne piane, si trapassa la strada che si va dall’Ospedaletto al Castello delli Giudici, si sale all’ultimo monte eminente dell’Ospedaletto, quale fa altri tre confini: Ospedaletto, Demanio di Capracotta e Vicenne piane; e rivoltando a sinistra, come acqua penne si va al primo luogo nominato di tre confini, cioè Demanio di Capracotta, Ospedaletto, e Vicenne piane, propriamente denomionato il Monte del Prato, dentro delli quali confini e circonferenze sta detto feudo di Vicenne Piane”.

Particolare di una cartina relativa al territorio ex feudale delle Vicende Piane.

 

Cronologia del feudo di Vicennepiane:

La cronologia che segue è stata ricostruita sulla base delle relazioni dei Razionali de Tomaso (11 lug 1733) e Nicola de Natale (4 apr. 1740) necessarie ai fini della registrazione nel Regio Cedolario del Regio Assenso all'acquisto del feudo in favore di Domenico Antonio d'Alena. Sebbene la prima menzione del feudo di Vicennepiane, nella carte antiche, risalga al 1171, è solo dalla metà del XVI secolo, che è possibile ricostruirne con precisione tutte le successioni che hanno visto avvicendarsi i vari titolari.

Poiché nell'anno 1806, fu emanata la famosa legge con la quale veniva abolito il sistema feudale, viene indicato solo l'ultimo titolare del feudo all'epoca dell'eversione feudale, omettendo i successivi che lo possedettero solo come proprietari e non più come titolari di giurisdizioni sul medesimo.

              Cronologia dei feudatari di Vicennepiane (tale feudo apparteneva alla categoria di quelli trasmissibili con la clausola eredi e successori):

I Giovan Vincenzo d'Eboli, + dic 1567 Nel 1553, in occasione delle nozze che il figlio Andrea doveva conrarre con la figlia di Gio. Vincenzo Crispano, dona al figlio il feudo di Vicennepiane con la clausola ex nunc secuta eius morte.
II Andrea d'Eboli Figlio del precedente
III Aurelia d'Eboli Figlia di Andrea. Poiché il padre cadde in disgrazia della Corte e fu nominato fuorgiudicato, risulta essere suceduta nella titolarità del feudo nel 1568, in seguito alla morte dell'avo paterno.
IV Ettore de Majo Risulta essere il successivo titolare e vende il feudo a Donato Gio. Marchesano
V Donato Giovanni Marchesano, + 11 dic 1621 Titolare del feudo per acquisto dal precedente.
VI Giovanni Tomaso Marchesano, + 31 gen 1627 Figlio del precedente e titolare del feudo per successione al padre
VII Marco Francesco Marchesano, + 1642 Figlio del precedente e titolare del feudo per successione al padre
VIII Giovanni Tomaso Marchesano, + 31 dic 1682 Figlio del precedente e titolare del feudo per successione al padre
IX Anna Maria Baldassarra Marchesano, + Castel del Giudice, 8 apr 1729 Figlia del precedente e di D. Margherita d'Alessandro, sposa D. Giuseppe d'Alessandro (+ 20 ago 1715), Duca di Pescolanciano. Titolare del feudo per successione al padre.
X Ettore d'Alessandro, Duca di Pescolanciano Figlio della precedente e suo erede ab intestato, le succede nella titolarità del feudo.
XI Domenico Antonio d'Alena, *1687, + Frosolone 1764 Acquista dal precedente, nel 1733, il feudo di Vicennepiane, di cui diviene il successivo titolare.
XII Donato Antonio d'Alena, Frosolone 1746 - 1822 Figlio primogenito ed erede in feudalibus (testamento del 24 feb 1764) del precedente. Ultimo feudatario di Vicennepiane.

             

2. Il feudo di San Martino

            Il feudo di S.Martino, sito in provincia del Contado di Molise, confinava con i feudi di Frosolone, Cameli e Macchiagodena, e fu acquistato in capite Regia Curia e con separata giurisdizione. Non era un feudo de jure longobardorum e pertanto fu acquistato intero e non per quota (com’era accaduto invece per quelli di Bralli e Valle Ambra). Dall’intestazione sul Regio Cedolario, avvenuta il 21 giugno 1780[11], a nome di Donato Antonio, risulta che anche per questo feudo venne pagato il jus tapeti.  Al momento dell’acquisto esso era classificato come feudo inabitato, e cioè un feudo “in cui non si aveva notizia di una precedente per quanto antica popolazione”[12]. Tale in effetti era classificato fin dal XVI secolo, eppure in passato fu un popolato casale circoscritto da visibili limiti naturali[13]. Con il passare del tempo, però, i suoi abitanti furono indotti ad abbandonarlo trasferendosi nel vicino centro di Frosolone dove fu trasportato anche il titolo della parrocchia di S.Martino (che a fine ‘800 esisteva ancora). Dell’abbandono degli abitanti del feudo, sembra, si approfittò l’Università di Frosolone che illecitamente l’occupò aggiungendolo al suo contiguo demanio. La situazione fu aggravata dal fatto che i baroni che all’epoca lo possedevano erano sempre lontani e le rendite del feudo erano state lasciate all’amministrazione di cittadini di Frosolone, i quali, è da presumersi, che tennero più le parti della loro Patria, che del Feudatario perpetuamente lontano[14]. Quando i feudatari finalmente si accorsero dello spoglio che avevano subito, tuttavia altro non fecero che chiamare sempre salve e riservate le ragioni, che le competeranno per la reintegra della detta parte occupata, e con questa riserva l’alienarono a Nicola d’Alena. Al momento dell’acquisto il feudo era stato grandemente ridotto nella sua stensione tant’è vero che lungi dal contenere quei Prati, Montagne ed altro che ne formavano il tenimento, stante la detta occupazione è anzi ridotta ad essere un Colle di pietre di ristretta estensione. Dal progetto divisionale relativo all’asse ereditario di Donato d’Alena juniore, recante la data del 25 maggio 1848[1], risulta che la sua estensione era di tomoli centoquattordici, quarti tre, e misura una circa. Senonché l’Università di Frosolone, anziché reintegrare il legittimo possessore del feudo nelle sue proprietà, con ulteriori azioni cercò di occupare ulteriormente il territorio seminatorio. Fu per questo che Donato adì la Regia Camera chiedendo che si ordinasse e si notificasse all’Università ed ai suoi Deputati di non innovare nulla rispetto al detto feudo intimandogli altresì di comparire davanti alla Regia Camera nel termine di 20 giorni, altrimenti si sarebbe proceduto in contumacia. 

            Le notizie relative alla successione nel feudo iniziano dagli anni 1500 - 1504[15], quando  risulta tassato Antonius Caytanus pro S.to Agapito et ripora et feudo S.ti Martini doc. 61,2.1. Gli successe come erede Cesare pro infrascriptis castri et feudo: Riporczi, Santa Capita, S.to Martino exabitato[16], al quale seguì Sebastiano Caetani. Ultimo intestatario del feudo per questa famiglia fu Giovanni Antonio, il quale, nel 1544, lo vendette ad Antonio d’Afflitto di Napoli, che figurava tassato nei Regi Cedolari per gli anni 1549-52 e 1555-63[17] pro S. Capita e S.to Martino inhabitato. Con R. Assenso in data 27 novembre 1551, fu autorizzata la permuta del feudo di S. Martino, posseduto dal d’Afflitto, con le prime entrate, frutti e rendite delli Castelli di Pietransiero della Prov. Di Apruzzo e di Pettorano della Prov. Di Contado di Molise posseduti da Lucrezia Storrente, vedova del Caetani. Pochi anni dopo, nel 1555, la Storrente alienò nuovamente il feudo in favore del barone di S. Agapito[18], Giovan Francesco de Angelis di Teano che risulta esserne tassato fino al 1587. Gli successero in ordine di tempo il figlio Giovanni Maria ed a quest’ultimo Giuseppe che nel 1636 ne fece vendita ad Ottavio Provenzale unitamente alla terra di S.Agapito. Il Provenzale, qualche anno dop e precisamente il 14 dicembre 1643, donò i due feudi al figlio Giuseppe. Alla sua morte, avvenuta nel 1659, gli successe il figlio, Geronimo e quindi il nipote ex filio, Andrea, il quale nel 1675 vendette i feudi a Fulvia de Angelis[19]. Suo figlio D. Marino volendo farsi religioso nella Società di Gesù, donò i feudi di S. Agapito e di S. Martino al fratello Ignazio, con atto del notaio Filippo Reale di Napoli, datato 22 giugno 1693[20], e se ne ottenne il Regio Assenso il 14 aprile 1695[21]. Il successivo pasaggio feudale avvenne tra il detto D. Ignazio e Nicola d’Alena che con atto del notaio Gaetano Tanza di Napoli, datato 24 febbraio 1736[22], acquistò il feudo di S.Martino “confinante con le terre di Frosolone, Cameli e Macchiagodena, con tutti e singoli suoi beni, membri, corpi, entrate, ragioni, giurisdizioni”[23]. Il prezzo fu convenuto in 1.000 ducati ed i contratto stipulato con il patto di riscatto. La vendita definitiva avvenne sempre in favore di Nicola d’Alena, per tramite del fratello D. Giuseppe Antonio, e per il prezzo di 1.500 ducati, e l’atto fu stipulato dal notaio Francesco Tomasuolo di Napoli il 3 giugno del 1743[24]. Alla morte di Nicola (24 luglio 1768) venne dichiarato erede nei beni feudali il figlio secondogenito Filippo, il quale nel 1779, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie dello zio D. Giuseppe d’Alena nonché alla decisione del Sacro Regio Consiglio del 22 gennaio del 1774, lo cedette al cugino Donato d’Alena.

 

 

3. Il feudo di Bralli, anche  detto Bragli, Varalli, Varavalle o Varaldo.

 

Questo feudo, che venne chiamato in vario modo, e che per semplicità chiameremo sempre Bralli, era sito nel territorio di Vastogirardi, si estendeva su una superficie di 1521 tomoli[25] e confinava con i feudi di Vastogirardi, S. Giovanni, Montedimezzo, Ospedaletto e Vicennepiane, oltre ad altri terreni. Quando Nicola d’Alena ne acquistò una parte nel 1741, risultava essere un feudo disabitato, jure Longobardorum et in capite Regiae Curiae. Proprio questa sua natura di feudo di diritto longobardo, e quindi soggetto a divisione tra più proprietari, rappresenta la difficoltà nel rintracciare tutte le varie successioni feudali avvenute nel tempo tra i suoi diversi compadroni. Il Notaio Lorenzo di Ciò, tuttavia, nel suo libro Dei feudi e titoli della Famiglia d’Alena[26] è riuscito a rintracciare e ripercorrere con grande abilità quasi tutti i singoli passaggi feudali che si riportano di seguito attingendo a piene mani dal suo lavoro.

            All’epoca in cui Nicola d’Alena ne acquistò una parte, Bralli risultava in possesso di diversi feudatari. Il barone di Sessano, Antonio d’Andrea ne aveva una quarta parte, più un quarto di un’altra quarta parte, che insieme corrispondevano a 5/16 dell’intero. Questa quota confinava con l’altra di Giosafat del Monaco, Vicennepiane e demanio comunale di Vastogirardi.

            Un’altra quarta parte spettava al citato Giosafat del Monaco, e corrispondeva alla parte più vicina a Vastogirardi, patria della famiglia del Monaco. Tutto il resto, ad eccezione di una porzione che era frazionata fra l’Università, le Cappelle ed alcuni individui di Vastogirardi, era in possesso del Duca di Vastogirardi, Nicola Petra e confinava con Montemiglio, S. Giovanni, Montedimezzo e S. Nicola del Cupo.

            Eppure Bralli, che appariva ora così frazionato e diviso, anteriormente al 1548 apparteneva per intero a Bartolomeo d’Amico di Vastogirardi. Alla sua morte avvenuta nello stesso anno, gli successe il figlio Berardino, ma già l’anno seguente risultano tassati anche Francesco di Bartolomeo d’Amico per sé, nonché per Fiore e Berardo di Bartolomeo d’Amico ed anche tale Pacillo o Paolillo di Berardo. Alcuni anni più tardi, nel 1574, risultava diviso tra i suddetti Franceso, Fiore, Paolillo e da Bartolomeo, probabilmente figlio del defunto Berardino[27]. Fu così che iniziò la prima divisione del feudo dè Bralli e per seguirne le vicende successive, conviene prendere in considerazione le singole porzioni possedute dai feudatari nell’anno 1740, e di cui si è già parlato poco sopra.

            Iniziando dalla quota appartenente al barone di Sessano, Antonio d’Andrea, questa prima del 1637 apparteneva ad un certo Francesco Gifuni e successivamente ad Angela sua figlia o sorella, la quale morendo la lasciò ai figli Francesco, Benedetto e Paolo Sciotto[28]. La famiglia Gifuni, in precedenza, si ritrova in possesso olte che di questa quota anche di altre al confine col feudo di S. Giovanni. Infatti la fonte che vi si trova e che (al tempo in cui scrive il notaio di Ciò, cioè il 1896) si chiama S. Giovanni, era precedentemente appellata Fonte di Tabbano o Fonte di Gifuni[29]. La madre dei Gifuni era una tale Albenzia figlia unica ed erede di Santo a sua volta figlio del citato Paolillo di Berardo. La quota degli Sciotto fu quindi acquistata da Giulio d’Andrea il quale, però all’atto di chiedere il Regio Assenso, si vide opporre che non erano stati pagati i relevi relativi alla morte di Francesco Gifuni né per quelli della sua erede Angela. Egli dovette quindi addivenire ad una transazione con il Regio Fisco, approvata con decreto della Regia Camera del 26 febbraio 1715, il cui prezzo venne stabilito in 20 ducati, pagati il 9 marzo dello stesso anno , con fede di credito del banco di S.Eligio, intestata a D. Stefano di Stefano. Alla morte di Giulio avvenuta il 26 marzo del 1728, gli successe il figlio Antonio che mancò di pagare in tempo utile il relevio, in modo tale che quando nel 1734 chiese al Tribunale della Regia Camera l’intestazione della quota di Bralli a lui spettanti per eredità paterna, questo gli venne rifiutato. Dopo molte istanze gli si condonò parte della tassa e della multa, venendo ammesso a pagare in tutto 20 ducati, cosa che fece con fede di credito del 4 febbario del 1735. Ottenne quindi la desiderata intestazione nei libri del Regio Cedolario e fu legalmente investito utile signore e padrone della quota del feudo dè Bralli franca e libera da ogni peso, salvo il servizio feudale od adoa, dovuta alla Regia Corte, o suo assegnatorio, in carlini quindici e grana sette e mezzo all’anno. In seguito egli volle far definire i confini precisi della sua quota e ne fece richiesta al Tribunale della Regia Camera, la quale con decreto del 3 settembre 1735, incaricò la Corte di Vastogirardi di provvedere, intesi gl’interessati. Venne incaricato l’agrimensore Michele delle Croce di Vastogirardi ma residente in Agnone che il 26 dello stesso mese di settembre si recò sul posto insieme agli interessati che erano: Mattia de Dominicis, erario del duca Petra, Nicolò d’Andrea fratello e rappresentante del richiedente, Ludovico del

 per conto del padre Giosafat, Gioacchino del Monaco quale procuratore della Cappella del SS. Sacramento e come sindaco di Vastogirardi, l’Eletto Giuseppe Antonelli, Giuseppe del Vecchio e Francesco Dragone. Il della Croce, stimò l’estenzione del feudo in 1521 tomoli e la quota del d’Andrea in 476, ne designò i termini naturali e ne appose altri artificiali e spiegò il tutto in una lettera del successivo 29 ottobre.

            Il barone di Sessano, tuttavia, oltre ad ereditare i beni feudali era anche rimasto gravato da un debito di 2.700 ducati, che rappresentavano il capitale di 114,75 ducati di rendita annuale che Giosafat del Monaco aveva comprato da Giulio d’Andrea e dai suoi fratelli, Donatantonio e Michelangelo, con atto del notaio Francesco Antonio de Angelis di Napoli del 3 febbraio 1706 e Regio Assenso. Fu per questomotivo che Antonio decise di vendere la quota di Bralli, anche perché si trovava molto lontana dalle altre sue proprietà, cosa che fece con atto del 17 marzo 1741, stipulato dal notaio Tomasuolo, in favore di D. Giuseppe Antonio d’Alena, messo ed internunzio del germano Nicola, per il prezzo di 3.000 ducati. Il barone di Sessano ebbe subito 300 ducati mentre i restanti 2.700 li delegò in favore del creditore. Questa vendita fu confermata e ratificata nell’atto stesso dal germano del venditore, Nicola, che si obbligò personalmente a farla ratificare entro sei mesi dagli altri fratelli Casimiro ed Eugenio. Si ottenne l’assenso del re Carlo III e della Real Camera di S. Chiara in forma del Sacro Regio Consiglio e registrata al n. 43, fol. 70. Il relativo privilegio che era stato restituito a D. Giuseppe d’Alena, fu esaminato e riconosciuto regolare dal notaio Tomasuolo che ne fece fede con annotazione a margine della copia dell’atto stesso[30].

            Poche notizie si hanno in merito alla quota posseduta da Giosafat del Monaco. Essa intersecava il vallone Capo d’Acqua che sorgeva poco sopra nel feudo dell’Ospitaletto ed aveva un’estensione di 343 tomoli circa. All’interno vi era, però, un terreno di Francesco Dragone di 41 tomoli circa. Questa quota confinava con l’Ospitaletto, Vicennepiane, la quota del barone di Sessano e le terre demaniali di Vastogirardi. Giosafat del Monaco aveva anche altre due piccole quote all’interno dei Bralli, una estesa 55 tomoli e l’altra 88 circa.

             Resta la quota appartenente ai Petra. Prospero Petra di Castel di Sangro, famoso legista, come ricorda il Ciarlanti, aveva numerose proprietà in Vastogirardi, dove si recava spesso specialmente nelle buona stagione e considerato che il feudo di Bralli era vicino alla strada che conduceva da Castel di Sangro a Vastogirardi, decise di acquistarlo e ciò fece con due atti, rogati il primo dal notaio Ottavio Longo di Agnone il 29 agosto 1619, l’altro dal notaio Francesco Serricchio anche lui di Agnone, il 16 luglio 1621, comperò un quarto del feudo di Bralli con i suoi erbaggi, valli, piane, selve, mulini, giurisdizioni e qualsiasi altra ragione.

            La prima vendita riguardava 7/9 di un quarto e la quota fu ceduta da Consalvo d’Angelo, che a sua volta l’aveva acquistata da Santo di Santo di Vastogirardi nel 1617, per il prezzo di 936 ducati. La seconda riguardò altri 2/9 e fu facquistata da Santuccio e Sebastiano Dragone per il prezzo di 267 ducati. Prospero Petra acquistò anche una dodicesima parte di un altro quarto dei Bralli, per 90,00 ducati da Laura e Margherita Pacillo, Felice e Donatantonio Scarpitto e l’atto fu rogato dalla Regia Corte di Vastogirardi. Su questa compera chiese ed ottenne il regio assenso come l’aveva ottenuto sulla prima nel 1629 (quinternione 63, fol.33[31]). Suo figlio Vincenzo, acquistò dalla Regia Corte l’adoa di ducati 5,01 su parte di Bralli che era intestata a Pacillo di Berardo e condomini[32] nonché altre porzioni del feudo che risultano essere le seguenti:

a)     con atto del 6 marzo 1630 del notaio Stefano de Benedictis d’Isernia, ne acquistò altre due parti e mezzo di un quarto da Antonio alias Tonno di Tozzo d’Angelo, per 263 ducati;

b)     con atto del 7 ottobre 1632 del notaio Giovanni Andrea de Retiis di Agnone, ne acquistò a favore di Settimia Filonardi (della quale fu poi erede casa Petra) un’altra parte da Leonardo Sanità per 50 ducati. Su questo contratto s’impetrò il Regio Assenso il 20 aprile del 1640;

c)      con atto del 16 settembre 1636 del notaio Benedetto de Amicis di Alfedena, ne acquistò da Giambattista Sanità di Vastogirardi, un’alta pare che Giambattista aveva in comune col fratello Feliciano. Anche su quest’atto fu impetrato il Regio Assenso;

d)     il 23 marzo 1640 con obbliganza presso gli atti della Corte di Vastogirardi, ne acquistò da Amico e Sebastiano di Berardo un’altra parte che i venditori avevano in comune con Lorito e Giovannangelo di Berardo confinante col Tratturo, Montedimezzo e la valle di Leonardo Florino;

e)     il 31 ottobre del 1640, ne acquistò un’ulteriore parte da Sanità di Sanità per 50 ducati. Il contratto fu ratificato da Filippo figlio di Sanità con atto del notaio Giambattista Ramicone di Rivisondoli;

f)        infine con atto del 20 aprile del 1641 del notaio Giambattista Ramicone ne acquistò per 160 ducati, la parte più grande posseduta da Amico e Sebastiano di Berardo, e cioè la valle di S. Nicola del Cupo e la parte degli eredi di S. Gifuni.

Carlo, figlio del duca Vincenzo, nel 1701 acquistò altre parti del feudo di Bralli: la prima estesa 55 tomoli l’acquistò per 120 ducati da Giuseppe di Angella e da Francesco, Bendetto e Paolo Sciotto, figli ed redi di Angela Gifuni; la seconda estesa 27 tomoli, l’acquistò per il prezzo di 40 ducati da Domenico di Franco (questa quota il di Franco l’aveva acquistata da Placido Florino); la terza estesa 45 tomoli, l’acquistò per 80,00 ducati da Angela de Amicis, figlia ed erede di Giovanni Giuseppe di Capracotta[33].

            Su questi atti intervenne il Regio Assenso il 24 novembre del 1701, convalidato il 28 novembre 1703.

Le porzioni di feudo dei Bralli acquistati dai Petra, confinavano con il feudo di S. Giovanni di Montemiglio, posseduto dal barone Donato Berardino Angeloni di Roccaraso e proprio al loro confine, sotto i casaleni di S. Giovanni sorgevano due fonti poco distanti tra loro chiamate di Tabbano o di Gifuni. Poiché entrambi i confinanti possedevano grosse mandrie di animali ed ognuno riteneva che le fonti rientrassero nel proprio territorio, sorgevano spesso liti ed i contendenti ogni volta impedivano l’un l’altro l’ingresso delgi animali che andavano ad abbeverarsi. Pertanto, volendo, comporre la questione una volta per tutte, le parti rappresentate da Carmine Colucci, erario del duca, e Filippo Angeloni che interveniva in qualità di messi ed internunzio del germano barone Donato Berardino, si accordarono stabilendo di rivedere e determinare la linea di confine ed a questo fine deputarono due agrimensori, Michele della Croce di Vastogirardi e Gennaro di Nillo di Roccaraso i quali col pieno consenso delle parti espresso nell’atto del notaio Damase Franceschetti di Roccasicura, del 31 luglo 1760, stabilirono:

1)     il confine dei feudi doveva scendere in linea retta per 114 passi calcolati dalla vetta di Montemiglio fino al casaleno più settentrionale del gruppo dei casaleni diruti di S. Giovanni, rimanendo così i casaleni stessi entro il possedimento del barone Angeloni;

2)     le due fonti in questione dovevano essere soppresse ricoprendole, incanalandone le acque e costruendone una sola, distante dal predetto casaleno 128 palmi circa;

3)     presso la nuova fonte bisognava fabbricare e mantenere a spese comuni u pilone capace di riceverne le acque e da utilizzare come abbeveratoio comune agli animali di entrambe le parti;

4)     dal detto pilone dovevano essere calcolati altri duecentoventicinque passi in linea retta in direzione del tratturo fino a raggiungere una serrina. In questo punto doveva essere impiantato un termine artificiale recante scolpita la lettera P la lato del possedimento dei Petra, e la lettera A, su quello opposto;

5)     da questo termine e scendendo altri duecentosessanta passi, sempre in linea retta, fino a giungere al vallone che separa questi feudi dall’altro di Montedimezzo, doveva impiantarsi altro termine artificiale recante la dicitura che prolungando ancora tale retta , arriverebbe circa venti passi discosto dall’ultima cornice, a mano destra, verso ponente, del palazzo di Montedimezzo del PP. Certosini di Napoli[34].

      Delle operazioni eseguite venne anche redatta una pianta topografica sottoscritta dai due agrimensori nonché dal Petra e dall’Angeloni. Senonché con atto del notaio Michele Lavorgna di Napoli, del 20 febbraio 1778, il duca Petra vendette al barone Angeloni, tre parti del feudo Bralli estesi complessivamente 292 tomoli e confinanti col feudo di S. Giovanni. Le tre parti riguardavano un lotto di 55 tomoli sito in contrada Giangiuseppe, un altro esteso 210 tomoli in località Pacillo, ed infine l’ultimo di ventisette tomoli ubicato a valle del tratturo. Gli ultimi due lotti, divisi tra loro solo dal tratturo, confinavano con i feudi di S. Giovanni e Montedimezzo, con S. Nicola del Cupo ed altri possessori dei Bralli. Con il medesimo atto i Petra vendettero anche tutte le altre porzioni del medesimo feudo che avevano acquistato nel corso degli anni, ma poiché non se ne conosceva con esattezza ne l’estensione, né il valore, se ne promise la vendita appena le stesse fossero state misurate e periziate di comune accordo. L’assenso regio su questa compera intervenne il 25 febbraio del 1778[35]. In seguito s’intestò a Donato Berardino angeloni la quarta parte con altre porzioni del feudo di Varavallo, seu Bralli, vendutagli dal duca Petra. Il 4 luglio del 1778 la Gran Corte della Vicaria ordinò che uno dei suoi attuari, Giacomo de Luca, si recasse su luogo e trasferisse al barone Angeloni il reale e corporale possesso della quarta parte del feudo Bralli acquistata con l’atto del notaio Lavorgna di Napoli. Dell’esecuzione dell’ordine della Corte il de Luca ne rilasciò fede in un certificato datato 31 luglio 1778.

      Nell’istrumento del 20 febbraio 1778 era affermato che le porzioni acquistate dai maggiori del Petra constituivano la massima parte del feudo Bralli o Varavalle in capite Regiae Curiae e de jure Longobardorum e che la relativa adoa andava pagata alla Regia Corte. Il duca Petra, però ritrovò e presentò molte scritture dalle quali si evinceva ceh l’adoa doveva essere pagata a lui poiché risultava esserne assegnatario. Pertanto con successivo atto il duca cedette all’Angeloni anche i suoi diritti di assegnatario della Regia Corte, dandogli la facoltà d’intestarsi l’adoa nei libri del real patrimonio. Il duca si obbligò, inoltre, a garantire la verità di tale assegnamento fatto ai suoi maggiori dalla Regia Corte. La cessione fu stipulata dal notaio Lavorgna il 14 agosto del 1783 e fu conclusa per il prezzo complessivo di 194,60 ducati che furono pagati con fede di credito del banco di S. Giacomo intestata all’Avv. Giovanni Antonio Angeloni, fratello, messo ed internunzio del compratore[36].

      Alla morte del barone Lorenzo Angeloni (10/07/1821), che sposò D. Teresa d’Eboli di Roccasicura, non avendo questi discendenza, lasciò tutti i suoi averi, compresi i beni feudali (che tali non erano più in seguito alla legge abolitiva della feudalità del 1806), ai nipoti, figli della sorella Agata (che era deceduta nel 1777), Domenico Antonio e Maria Giuseppa d’Alena, al nipote dell’altra sorella Elisabetta, Bartolomeo Ricciardelli, alla germana Anna Maria, lasciando ad ognuno 1/3 di eredità.

 

           

4. Il feudo di S. Giovanni di Montemiglio.

 

Il feudo di Montemiglio vulgo dictum Quarto di S. Giovanni, si trovava nel territorio di S. Pietro Avellana e confinava con i feudi di Bralli e Montedimezzo, e col vallone Vandrella. L’intero feudo di Montemiglio era costituito dai feudi di S. Restituta o Valle di Montemiglio, dalla Cococciola (o Roccocciola) e dal Quarto di S. Giovanni.

            Anticamente ai piedi di Montemiglio vi era un villaggio, verso mezzoggiorno nei pressi della fonte di Gifuni, nel quale vi era una cappella dedicata a S. Giovanni Battista. Chiesa e villaggio furono distrutti dal devastante terremoto del 6 dicembre 1456, quando una porzione della sovrastante montagna si staccò ricoprendoli. L’evento coinvolse anche quarantaquattro persone che vi rimasero seppellite[37]. Il villaggio non fu più ricostruito e solo pochi ruderi, denominati Casaleni di S. Giovanni restano ad indicare il luogo dove esso sorgeva. La cappella fu invece riedificata nel 1694 dal barone Donato Berardino Angeloni, nella zona di poco sottostante ai suddetti Casaleni di S. Giovanni; fu benedetta e consacrata  il 25 giugno del 1695 per delegazione del vescovo di Trivento dall’Arciprete di Vastogirardi, D. Francesco del Vecchio. Un altro terremoto distrusse la fonte che vi si trovava ed anche questa fu ricostruita ad opera di D. Giustiniano Angeloni, figlio di Donato Berardino ed Agata Florini, secondo quanto si legge su una pietra spezzata  recante la seguente incisione: nuper a terremotu 1706 undante V.I.D. Abbas D. Iustinianus Filius reparavit.

La chiesa dedicata a S. Giovanni Battista e sullo sfondo la vetta del Montemiglio

            Il feudo appartenne anticamente alla famiglia Carafa ed ultimo possessore di questa famiglia fu Bartolomeo che nel 1507 lo vendette a Salvitto Carfagna (Salvitto de Carfoneis) di Capracotta[38]. I suoi eredi lo vendettero ad Andrea d’Eboli il 29 luglio del 1521. Costui nel 1581 vendette a Giulio di Grazia di Castel di Sangro due dei feudi che componevano per intero quello di Montemiglio, e cioè S. Restituta o Valle di Montemiglio e la Cococciola. IL 23 luglio dello stesso anno vendeva per 2.200 ducati anche il feudo di Montemiglio detto Quarto di S. Giovanni a Nicola Florini di Roccaraso[39]. Il feudo era disabitato ed in capite Regia Curia, e dall’atto di vendita si evincono i confini: “Incipiendo dall’acqua di S. Biase, che è confine di S. Restituta, e tira per l’acqua in su, giù lassando Colle rotundo sopra detto quarto, e tira vicino la Taverna di Pacileo, che sta sopra quella parte, se intende recuperare da quelli del Guastogirardi in beneficio ex reintegratione di deto Feudo Secondo in Processo, e da lì cammina serra serra per l’acqua di una Fontana detta la Fonte di S. Giovanni, e da li Camina e tira sopra le Casaline di S. Giovanni, quale restano tutte sopra detto Quarto e dallà tira per lo lemite Secondo la confina del territorio de Antonio de Corrado de Santo Pietro de l’Avellana, e da lì scende a bascio, scendendo quasi sempre per detta acqua sino al passo dell’acqua de S. Biagio primo confine”. In un documento datato 18 marzo 1728, relativo alla fede del razionale d’esser soddisfatto per li relevi del feudo di S. Giovanni, si legge che la Magnifica Agata Florino è utile padrona del feudo nominato il Quarto di S. Giovanni di Montemiglio nelle pertinenze di S. Pietro di Avellana. Da un altro atto del 1821 rogato dal notaio Marco Evangelista Ramicone di Rivisondoli, con il quale veniva ratificata la vendita di un’annua rendita fatta da Lorenzo Angeloni a favore di Giuseppe Liberatore[40], e che riguardava la costituzione d’ipoteca sui beni posseduti dal barone Angeloni, si evince con maggior precisione la localizzazione del feudo e l’estensione delle parti che lo costituivano: Catasto di San Pietro Avellana, art. 15, sez. C = n. 278 Prato di Monte in contrada di Valle Montemiglio di tomoli 10 = n. 279 Prato idem di tomoli 10 = n. 280 Seminativo di Piano in contrada avanti l’Osteria della Valle tom. 18 = n. 281 Seminativo a Piana Ferrari di tom. 8 = n. 282 Seminativo sotto il Moricone di tom. 24 = n. 283 Seminativo a fonte Patruario tom. 6 = n. 284 Seminativo a pezza del Monte tom. 12 = n. 285 Sodo con faggi in contrada Fonte di Gustasione tom. 100 = n. 286 Sodo con faggi a Piano Inebri tom. 240 = n. 287 Sodo con cerri a Casa mezza calzetta tom. 200 = n. 288 Sodo con cerri a Fonte Parrasca tom. 50 = n. 289 Sodo idem a Brella tom. 50 = n. 290 Sodo idem a Casalini S. Giuseppe tom. 50 = n. 291 Sassoso a Fontana di S. Giovanni di tom. 60. Nel complesso dunque il feudo era esteso circa 246 ettari[41]. Di questi beni le Capelle di S.amico, del SS. Sacramento  e di S. Maria della Neve ne rappresentavano un terzo.

Lapide posta sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista, recante la seguente iscrizione:
D.O.M.
ET 

IN HONOREM S. IOAN BAPTA SACRAM AEDEM HANC

ALIBI RUINOSAM TERRAEMOTU. A. MCCCCLVI
DONATUS BERARDINUS ANGELONI
BARO EJUSDEM CASTRI VALLIS M. MILLULI
TANTO NITENS PATRONO
FAUSTA SECUNDA OMNIA SIBI POLLICETUR
HIC
DE INTEGRO RESTITUERE CURAVIT
A.R.S. MDCXXXV

            Quando Nicola Florini morì nel 1595, il feudo venne intestato al figlio primogenito Cesare, il quale nel 1618, previo consenso di tutti gli altri suoi germani Giacomantonio, Loreto e Tiburzio ne fece vendita all’altro fratello Leonardo. In precedenza era insorta un lite tra i figli di Nicola ed un loro parente Florino Florini per la divisione di alcuni beni che si risolse con un arbitrato: in tutti gli atti inerenti la lite ci si riferisce al feudo di S. Giovanni di Montemiglio come feudo de jure longobardorum. Nel 1646, Leonardo si ammalò e decise di fare testamento; non avendo figli ed essendo ancora in vita, dei suoi fratelli, solo Giacomantonio, e due nipoti Giambattista, figlio di Cesare, e Placido, filgio di Loreto, decise d’istituire erede univerale il fratello Giacomantonio. Il testamento rogato il 10 agosto del 1646 dal notaio Loreto de Gallozio di Agnone e dal Regio Giudice a contratti  Giuseppe Fantini di Pescocostanzo stabiliva che: “Item dichiara esso testatore di avere un feudo nuncupato Quarto di Valle S. Giovanni Montemiglio, sopra del quale ne istituisce erede il Dottor Giacomantonio Florini suo fratello, con peso e condizione però che abbia da pagare al suddetto Giambattista suo erede e nipote ducati duemila e cinquecento: e fintantoché detto Giacomantonio non pagherà detti ducati duemila e cinquecento, sia lecito al detto Giambattista ritenersi in tenuta e possessione il detto feudo; come così esso testatore vuole, ordina e comanda che se lo ritnga con tutte le sue ragioni ed azioni, senza che possa essere molestato dal detto Giacomantonio, né amosso dalla tenuta e possessione di detto feudo per qualsivoglia causa”. Senonché il 12 agosto del 1656, a causa della peste che causò 285000 vittime in tutto il Regno di Napoli, Giacomantonio morì senza aver potuto pagare il nipote, né avergli mai richiesto il possesso del feudo. Non lasciò figli e non fece testamento. Un mese dopo, il dodici di settembre, morì anche Giambattista che trasmise il feudo al suo primogenito Domenicantonio che alla sua morte, avvenuta il 23 agosto del 1666, lasciò erede l’unica sua figlia Agata Rosaria. Agata nel 1695 chiese alla Gran Corte della Vicaria il decreto di preambolo del padre, dell’avo Giambattista e dello zio di quest’ultimo, Leonardo, ottenendolo il 24 luglio del medesimo anno. Venne a transazione col Fisco per i relevi dovuti dal padre e dall’avo  e si fece intestare il feudo. Morì il 22 maggio del 1718, lasciando il feudo al figlio Lorenzo. Quest’ultimo con decreto di preambolo del 1 luglio 1719 fu dichiarato unico erede della madre nei beni feudali. Per quanto riguardava invece i burgensatici, le successe unitamente ai fratelli e con l’obbligo di dotare le sorelle di paraggio. L’intestazione del feudo a suo nome avvenne il 28 aprile del 1722. Alla sua morte avvenuta in Roccaraso il 2 marzo del 1743, ebbe come successore il figlio Donato Berardino che s’intestò il feudo con decreto di preambolo della Corte di Roccaraso datato 16 marzo 1743, e confermato dalla Gran Corte della Vicaria il 22 aprile 1743. Donato dovette sostenere una lunghissima lite, iniziata già da suo padre nel 1734, contro le Cappelle ed i Cittadini di San Pietro Avellana. Egli presentò in giudizio una relazione del razionale Gennaro Paziente, dalla quale si evinceva che Giovanbattista Florini era nipote ed erede testamentario di Leonardo Florini. Le Cappelle ritrovarono il testamento e l’esibirono, e della cosa ne venne a conoscenza il Dr. Giacomantonio Florini di Roccaraso, il quale pensò di iniziare una nuova lite contro il barone Angeloni al fine di recuperare, dopo ben 147 anni dalla morte di Leonardo, il feudo di S. Giovanni. Giacomantonio Florini discendeva da Placido, suo trisavolo, ed in data 27 giugno 1795 chiese alla Gran Corte della Vicaria il preambolo di Leonardo per le interposte persone dei suoi antenati, pretendendo per il suo avo Placido il preambolo ab intestato del primo Giacomantonio Florini di cui si disse unico erede, ed il preambolo in feudalibus di Leonardo in virtù del testamento  del 10 agosto 1646. La Gran Corte della Vicaria, rispose con un decreto datato 3 luglio 1804, con il quale si ordinava d’interporre il preambolo e si riconoscevano i diritti dell’istante su metà del feudo di S. Giovanni. Contro il decreto proposero appello alla Gran Corte sia il Florini, che pretendeva l’intero feudo, come l’Angeloni che non voleva cederne la metà e la lite si risolse in quanto, in quel periodo (1809), intervenne la divisione dei Tribunali per cui il Florini portò la causa davanti alla Gran Corte civile di Lanciano, che riteneva competente essendo morto Leonardo Florini in Roccaraso, territorio ubicato in Abruzzo e quindi compreso nella giurisdizione di questo Tribunale; la Gran Corte di Lanciano il 19 gennaio 1814 si dichiarò competente. Il barone Angeloni si era invece rivolto alla Gran Corte di Napoli e ricorse alla Corte Suprema, la quale con avviso del 6 settembre 1814, ritenne l’incompetenza della G. Corte di Lanciano perché la citazione del Florini non era una semplice petizione d’eredità, ma anche la revindica di un feudo situato nel perimetro della giurisdizione della G. Corte di Napoli. La causa fu quindi rinviata in questa sede. Con decisione del 13 settembre 1819 la Gran Corte di Napoli, riformando il decreto della Gran Corte della Vicaria condannò l’Angeloni a rilasciare tutto il feudo di S. Giovanni al Florini dopo averne riscossi i 2.500 ducati lasciati nel testamento del 1646. Il barone Angeloni, intenzionato a non darla vinta alla controparte, ricorse di nuovo alla Corte Suprema che il 3 agosto 1820 annullò anche quest’ultima decisione e rinviò la causa ad un’altra Camera della stessa Gran Corte. Lorenzo Angeloni morì il 10 luglio 1821, senza discendenti, la causa continuò davanti alla terza Camera della Gran Corte civile di Napoli, con i suoi eredi e cioè la sorella Anna Maria ed i nipoti della sue altre due sorelle defunte, Agata ed Elisabetta, che erano Donato d’Alena e Bartolomeo Ricciardelli di Pescocostanzo. Con decisione del 5 dicembre 1821, pubblicata il 7 gennaio dell’anno successivo, si revocò la precedente decisione e gli eredi di Lorenzo Angeloni furono assolti dalle richieste del Florini, mentre le spese di giudizio furono compensate. Due anni più tardi, nel 1823, il Florini propose ricorso alla Suprema Corte, la quale, però, con avviso del 28 febbraio 1826, lo respinse ed il feudo rimase definitivamente agli eredi dell’ultimo barone Lorenzo Angeloni.

            E’ importante sottolineare che da un documento datato 8 ottobre 1808[42] si evince che Lorenzo Angeloni alla morte del padre, pagò non solo il relevio per il feudo di Bralli, ma anche per Montemiglio o Pesco Roccocciola.

            Il notaio di Ciò nel suo libretto a stampa del 1896, Dei feudi e titoli della famiglia d’Alena, sostiene che poiché il feudo di S. Giovanni era de jure longobardorum ed il barone Lorenzo Angeloni era morto senza eredi e successori, il titolo di barone di S. Giovanni si trasferiva in capo all’unico maschio, figlio della primogenita, germana del barone Lorenzo, e cioè a Domenicantonio d’Alena.

Il feudo di Montemiglio, dopo essere stato oggetto di una lunghissima lite giudiziaria tra i cittadini di San Pietro Avellana ed i baroni che si succedettero nella titolarità del medesimo, venne infine suddiviso tra il Comune, una delle cappelle laicali, ed i d'Alena. La divisione del feudo tra questi ultimi, avvenne per la prima volta il 25 maggio del 1925, con atto del Notar Schocchera di Vastogirardi..

 

 

 5. l feudi di Macchia d'Isernia e Valle Ambra

    Le notizie più antiche relative al feudo di Macchia d’isernia (che nel 1150 pare fosse in possesso di Roberto de Moulins, consorte di Clementina, figlia più piccola di Rugero II d’Altavilla e sorella di Costanza, madre di Federico II di Svevia), sono state rinvenute nei Registri della Cancelleria angioina (vol. III, reg. X, n. 19 e reg. XIII, n. 887). Da essi risulta che nel 1270 la terra di Macchia fu concessa a Matteo de Agello di Salerno che la possedeva per sé et heredibus suis. A lui subentrò il figlio Riccardo.

   In seguito Macchia pervenne, per acquisto fattone, ad Aldemario di Scalea, che ne fu, però, privato per essersi ribellato a Roberto d’Angiò. Il feudo venne quindi attribuito alla Regina Sancia, moglie del sovrano. Nel 1348 la regina Giovanna I, subentrata al fratello Roberto, diede Macchia in feudo ad Andrea d’Isernia, figlio di Landolfo, ultimo della prole del grande giurista.

   Alla morte di Andrea d’Isernia, Macchia passò alla famiglia de Sabran.

   Dagli atti d’acquisto (1748) del feudo da parte del Barone Nicola d’Alena, figlio di Donato, è possibile ricostruire con precisione le successive vicende feudali di Macchia.

   Nel 1464 il re Ferdinando concesse a Nicola Gaetano il feudo di Macchia unitamente a quello di Monteroduni. Il feudo perviene quindi a Bernardino di Santo Marzano, il quale morì senza successori legittimi, per cui la terra di Macchia fu incamerata alla Regia Curia. Risulta che nel 1505 Ferrante de Cordova ne fece vendita in favore di Ludovico d’Afflitto. Antonio Grano nel suo libro Macchia d’Isernia ricorda quest’evento pubblicando un documento del XVI secolo nel quale si legge: “In anno 1505 Ferdinando II d’Aragona, Re di Napoli dice esserli stato esposto dal Sig. Ludovico d’Afflitto, qualmente esso Ludovico ave comprato dal sig. Capitano suo luogotenente Generale Consalvo Fernandez de Cordoba mediante suo alberano pe ducati 2.500 le castelle di macchia e di Monteroduni le quali li furono vendute alla ragione di 10% di loro entrate. Il prezzo di quelli castelli sarìa asceso a ducati 2.700. Ne ha perciò domandato la confermazione e remissione di quello più. Detto Re avendo riguardo alli servizi prestati per detto Ludovico nella passata guerra e alli danni per lui patiti, li ha donato tutto quello che di più valevano, et quello cum eorum castris, hominibus, vaxallis, feudi, fide, diffide, dogane, gabelle, passaggi, tasse di baiulazione, banco di giustizia et cognizione primarum causarum civilium, criminalium. Detto Re concede a titolo di donazione et suis heredibus et successoribus e come quelo ave tenuto Bernardino Santo Marzano, par la morte del quale senza eredi sono state devolute alla regiam Curiam”.

   Nel 1529 gli eredi di Ludovico d’Afflitto (la moglie Altobella Pandone ed il figlio primogenito Giovanni Battista) vendettero la terra e il castello di Macchia a Michele d’Ussuria per 2000 ducati, riservandosi il diritto di riscatto.

   Il 27 dicembre 1556, morì Giovanni Battista d’Afflitto e gli successe il figlio Ludovico che riscattò il feudo.

   Il 23 agosto del 1564, fu dato il regio assenso alla vendita della terra di Macchia e della metà del feudo di Vall’Ambra, a Giovanni Donato della Marra, per il prezzo di ducati 14.300. Successori di Giovanni Donato furono i suoi figli Luisa, Giovanni Battista ed il fratello Ferrante, che lo conservarono fino al 1627, epoca in cui il feudo passò ai de Gratia. Titolari del feudo per questa famiglia furono Cesare, Francesco e Domenico Antonio, che lo detennero fino al 1646. Da questa data fino al 1690 ne tornarono in possesso i d’Afflitto con Scipione ed i suoi discendenti Ludovico e Orazio.

   Nel 1690 divengono titolari di Macchia d’Isernia e Vall’ambra i Rotundo, in persona di Giuseppe Antonio. Suoi successori furono i figli Geronimo ed Anna Grazia. Sembra che i creditori dei Rotundo chiesero ed ottennero l’esposizione all’asta dei feudi, che nel 1748 vennero acquistati da Nicola d’Alena. I fratelli d’Alena, Domenico Antonio, Nicola, D. Geronimo, D. Francesco e D. Giuseppe, avevano acquistato i feudi di Macchia e Vall’Ambra, così come quelli di S. Martino e Bralli con denaro della società che avevano costituita. Per questo motivo, l’ultimo di essi fratelli, D. Giuseppe (+ 14 gennaio 1772) stabilì con testamento che i feudi di S. Martino e Bralli andassero al primogenito di suo fratello Domenico Antonio, e quelli di Macchia e Vall’Ambra al nipote Filippo, figlio di Nicola, che risultava già intestatario dei suddetti feudi.

   Filippo d’Alena era il secondogenito di Nicola, ed aveva altri quattro fratelli: D. Felice, primogenito, che essendo sacerdote secolare non poté succedere al padre nei beni feudali, Maria Teresa, Lucrezia e Vincenzo. Quest’ultimo sollevò una causa per ottenere la metà del feudo di Vall’Ambra che risultava intestata al fratello Nicola dall’epoca della morte del loro comune genitore, avvenuta nel 1768. Vincenzo appoggiava la sua richiesta argomentando che Vall’Ambra era feudo soggetto al diritto longobardo, e pertanto suscettibile di essere diviso tra i figli maschi del titolare. Adì, quindi, la Regia Camera, la quale con decreto in data 1789, ordinò al Barone Filippo d’Alena, di rilasciare la metà del feudo di Vall’Ambra in favore del fratello, trattandosi di feudo soggetto al jus longobardorum. L’intestazione nei Regi Cedolari della quarta parte di Valle Ambra, porta la data del 30 giugno 1792 (Archivio di Stato di Napoli, Regio  Ced. vol. 12 f. 809 e segg.)

   Relativamente al feudo di Macchia d’Isernia è interessante esaminare i diritti di cui godeva la camera baronale (da una relazione tenuta nella Sala Consiliare del Comune di Macchia d’Isernia dal Prof. Giusto Siravo il 18 dicembre 2005).

Mastrodattia e Bagliva: possiede la Camera Baronale lo Corpo della Mastrod’attia, che consiste nell’esercizio delle prime e seconde Cause a Banco della Giustizia. Di più lo Corpo della Bagliva, la quale consiste nell’esiggere la pena dei danni dati.

Trappeto: tutte l’olive che sono e procurano l’oliveti nella Terra di Macchia si devono macinare nel trappeto della Camera Baronale, e doppo macinato, per ogni macina di esse di tomola dieci, esigge la suddetta Camera caraffe cinque d’oglio, dovendo però a sue spese li tappeti per molire l’olive predette occorrendovi tre persone, alle quali li dà di Salario a due d’essi un grano per macina e al maggiore della gente il doppio, a le spese dei Cibari, e legna se li danno da chi porta a macinare l’olive.

Forno: possiede la Camera Baronale il ius del Forno del Pane a Cuocere, essendo in obbligo i cittadini di portare a cuocere il loro pane nel Forno della Camera Baronale e dare un rotolo di pane per ciascun tomolo alla Camera suddetta e un altro al Fornaro per la fatica, che ci impiega per trasportare il pane al Forno e cuocerlo.

Al ponte detto corpo non sta affittato perché l’Unità non esigge la buonateneza dalla Camera Baronale, per li corpi alteriati.

Mulino: possiede la Camera il Molino, che sta mezzo miglio in circa distante dalla Terra verso la volta di Tramontana, macinando con l’acqua del fiume nominato del Cavaliere, e consiste in una Casa Coverta a Tetto, dentro di cui ci sono due macine a Canale per macinare, una è antica e l’altra di nuovo fatta dal Sig. Barone d’Alena e macinano a Canale aperto, l’abbondanza dell’acqua vi è, e pagano i Cittadini d’esse Terra di Macchia per ogni tomolo, un Coppo di Grano che comprende una misura e mezza scarsa, però l’Unità è in obbligo di nettar la forma del Molino, che porta l’acqua in esso.

Di più in detto Molino vi è anco la Valchiera di nuovo fatta dal suddetto Signor Barone d’Alena.

Vincenzo di Giacomo di Isernia al ponte tiene affittato lo Molino e Valchiera per anni… a raggione di tari cento l’ano che cominciato all’annata a 17 Gennaro 1752 e finisce a 16 Gennaro. Come dall’obbligo dico… tari 100.

Pesca: possiede la Camera Baronale il ius della pesca nel Fiume detto il Cavaliere, che passa mezzo de Territorio Giurisdizionale di detta Camera Baronale un buon tratto d’esso, Pescandosi Anguille, Trotte, Senelle, Schiami, avari e altri pesci dolci.

   I feudi di Macchia d'Isernia e Valle Ambra, rimasero in possesso della famiglia, fino all'eversione della feudalità, e ben oltre questa data. I discendenti di D. Celeste d'Alena (+ 1938), ultima del ramo dei Baroni di Macchia d'Isernia, dimorano ancora nell'avito castello di Macchia.

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[1]       Ciarlanti, Memorie istoriche del Sannio, vol. 3° pag. 165: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 8, nota n. 1.

[2]       Elenco delle carte di S.Pietro Avellana conservate nell’Archivio di Montecassino: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 9, nota n. 3.

[3]       Atto del notaio Giuseppe Iamosio di Castel di Sangro: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 12.

[4]       Atto del notaio Domenicantonio Mezzanotte di Frosolone, datato 14 aprile 1732: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 14.

[5]       Cedolario di Molise, vol. 19, foll. 174 e segg.: ASN (AFS).

[6]       Relazione del razionale Giovanni de Tomaso, per la compra di Vicenne piane fatta dal barone Domenicantonio d’Alena, del 7 luglio 1733, atto alegato al fascicolo n. 3192, d’Alena, Consulta Araldica, ACS (AFS): cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 20.

[7]       Certificato della Regia Camera della Sommaria, del 27 agosto 1756.

[8]       Atto allegato al fascicolo n. 3192, d’ALena, Cosulta Araldica ACS: cfr. anche L. di Ciò, op. citata, pag. 21. e fascicolo 3192.

[9]       La confinazione che si evince da questo atto, fu integralmente ripresa da Donato d’Alena (1746 – 1822), che inviò al Supremo Tribunale delle Finanze in Napoli, in obbedienza agli ordini da questi ricevuti, relazione sullo stesso: cfr. P. Settefrati, op. cit.

[10]     Dalla relazione di cui alla precedente nota, si evince che l’estensione di Vicenne piane era di carra 22 e versure 4: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 16, nota n. 26.

[11]     Cedolario di Molise, vol. 19, foll. 174 e segg., ASN (AFS),

[12]     R. Trifone, Feudi e demani, Milano, 1909, p. 287: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 78 e nota n. 1.

[13]     Pandetta Negri, vol. 90, proc. 6, f. 5, datato 19 agosto 1795, ASN (AFS).

[14]     Cfr. Pandetta Negri, cit.

[15]     Cedolari Antichi, vol. 5, n. 14, f. 29: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 78, nota n. 2.

[16]     Cedolari Antichi, vol. 6, n. 16, f. 54: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 78, nota n. 3.

[17]     Cedolari Antichi, vol. 11, n. 29, fol. 34 e vol. 13, n. 34: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 79 e note nn. 1 e 2.

[18]     Cfr. anche Giustiniani, op. cit., alla voce S. Agapito.

[19]     Cedolario di Molise, vol. 14, f. 375 e segg.: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 79, nota n. 7.

[20]     Cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 80.

[21]     Cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 34 e nota n. 13.

[22]     Cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 80.

[23]     Privilegi Camera Reale, vol. 73, f. 128 e segg.: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 80 e nota n. 2.

[24]     Cedolario di Molise, vol. 18, f. 359 e segg.: cfr. M. Colozza, op. cit., pag. 80, e nota n. 3. Senonché il notaio di Ciò, nell’op. più volte cit. a pag. 34, riferisce che l’atto fu stipulato a giungo del 1744 e che il giorno 9 dello stesso mese ed anno intervenne il R. Assenso alla vendita eseguita, affermando di averne trovato notizia nel “quinternione n. 267, ora n. 346, fol. 311.

[25]  Risulta difficile determinare la capacità di quest’unità di misura che variava da luogo a luogo, e perfino da comuna a comune. In Molise, nella zona di San Pietro Avellana  essa dovrebbe corrispondere ai 2.940 mq. A Morrone del Sannio, ad es. equivale ancora a mq 3.085.

[26]         Citato in bibliografia.

[27]     Relazione dell’Attuario Tommaso Spada, del 15 aprile 1704, inserita nelle Fede del Cedolario dei Bralli del 26 giugno 1704: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 35 e nota n. 17.

[28]     Cfr. relazione Spada, cit.

[29] Pianta topografica allegata all’atto del notaio Damase Franceschetti del 31 luglio 1760: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 36 e nota n. 19.

[30]         Atto del notaio Tomasuolo del 17 marzo 1741: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 39 e nota n. 23.

[31]         Cfr. L. di Ciò, op. cit. pag. 40.

[32]     Atto del notaio Michele Lavorgna di Napoli, del 14 agosto 1783: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 40, nota n. 25.

[33]     Atto del notaio Lavorgna, datato 20 febbraio 1778. Relazione Spada, cit.: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 42, nota n. 26.

[34]     Cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 43.

[35]     Quinternione 313, p. 205 a t.; Privilegio 128, fol. 94 a t. (fede del Cedolario di Casimiro de Cristofaro, del 1° aprile 1801, per il feudo intestato ad Agata Florini): cfr. L. di Ciò, op. cit. pag. 44.

[36]     Cfr. L. di Ciò, op. cit. pag. 46.

[37]     Summonte, Historia della città e regno di Napoli, libro 6, pag. 248: cfr. L. di Ciò, op. cit., pag. 48, nota n. 1.

[38]     Regio Assenso del 19 marzo 1507: cfr. L. di Ciò, op. cit. pag. 50.

[39]     Atto del notaio Giambattista Fornati di Rivisondoli, datato 23 luglio 1581, allegato al fascicolo n. 3192 d’Alena, Consulta Araldica, ACS (AFS).

[40]     Cfr. P. Settefrati, op. cit. pag. 205.

[41]  Calcolando il tomolo come equivalente a mq 2940.

[42]     Documento allegato al fascicolo n. 3192 (all. n. 15) d’Alena, Consulta Aradica, ACS (AFS).